Cari fratelli e sorelle, mi era stato chiesto di firmare per la prima volta il pensiero di Primizie di questo primo mese dell’anno nuovo, prima che i recenti tristi fatti facessero il loro corso. Così, dietro il consenso della famiglia Marchetti, pubblico integralmente come prima delle primizie, sia mie che dell’anno 2016, l’elogio funebre da me tenuto nel funerale del 4 gennaio che comprende la narrazione della visione avuta da Severino così da consegnarla alla memoria di questa chiesa e, forse, a stigma del mio ministero.
«Pace a tutti,
mi è stato chiesto di dire qualcosa e ritengo sia per me davvero un privilegio poterlo fare per il mio amico e fratello Severino.
Severino, tanto per dare un'idea di cosa significasse per me, è uno del quale ricordo il momento in cui da piccolo fui a lui presentato. Per qualche strano motivo quell'istante è parte dei miei pochi ricordi di quando avevo cinque o sei anni. E forse lo ricordo perché, nella mia innocenza di bambino, sorrisi a causa di quello strano e singolare nome mai sentito prima, alludendo ad un fanciullesco e simpatico frainteso. Era una domenica mattina e anche di questo sono certo perché me ne scorazzavo qui fuori dopo un culto, all'ora di pranzo.
Credo di non errare nel dire che nel medesimo anno andammo in vacanza insieme perché mio padre ospitò nella stessa casa di Anzio presa per l'estate, Bruna e Severino. Ricordo che fu pescato un polpo, un polpo gigante che fu messo nel lavabo della cucina. Così, impressionato e rapito da quei tentacoli che si muovevano, non potevo pensare ad altro. Severino, che era di quattro anni più grande di me, se ne accorse e messosi accovacciato accanto a me nel corridoio adiacente la cucina, dove ero tutto preso ad osservare i traffici di quei tentacoli, prese a raccontarmi una fiaba, messa in piedi da lui sul momento, che aveva come protagonista proprio un polpo.
Ancora oggi, quando ne parlo dico: "ma lo sai chi era per me Severino? Severino era quello che quando ero piccolo, mi raccontava le fiabe sul polpo!" E' una cosa che anche lui ricordava, e lo faceva volentieri.
Poi quando avevamo io dodici e lui sedici anni, cominciammo a suonare insieme nella chiesa, con il primo gruppo musicale di cui facemmo parte: "gli Alpha".
Da lì una passione per la musica, per i sogni, per i concerti, per DJ Television, il programma, che prima che qualunque MTV nascesse e che di lì a poco si sarebbe chiamata Videomusic, era la domenica pomeriggio l'unica chance per vedere qualche videoclip d'oltreoceano. E lì a raccontarci opinioni e pareri sull'ultimo brano di questo o quel gruppo.
Al tempo lui suonava la chitarra. Era più avanti di me. Sapeva fare il barrè intero. Io a quel tempo, proprio non ci riuscivo.
E così via. Raccontare anche per sommi capi ciò che ho fatto con Severino non si può, perché si tratta di una vita e una vita non la si può circoscrivere in questi fogli.
Basti pensare che esistono davvero pochi luoghi in questa chiesa che io non possa associare per un motivo o per l'altro a lui, e questo perché che fosse mattina, pomeriggio o sera, ci ritrovammo prima o dopo, negli anni, a suonare dappertutto. Io, con la passione per chitarra e lui ormai, avendo scoperto il dono della sua bella e calda voce, col canto.
Provammo per esempio per quindici giorni di seguito giù nel refettorio in occasione del nostro primo concerto a Villa Adele ad Anzio in un torrido agosto, e senza aria condizionata. A quel tempo, era cosa rara.
Provammo per un periodo nel piano superiore, dove ora si trova la nursery. Provammo e suonammo centinaia di volte in questa sala per le più svariate occasioni come concerti, prove o le ordinarie riunioni di culto. Provammo nella saletta, nella piccola cappella che si trova all'entrata. Nemmeno le cantine abbiamo risparmiato. Quando il gruppo che formammo - i Patti Perfetti - registrarono il video "Oltre Me", le parti interne, al chiuso, furono riprese nelle cantine di questa chiesa.
Questo per dire che sarà davvero strano recarsi in questa strada, via Giuseppe Chiovenda ed entrare in questa chiesa al numero 57, senza pensare di avere la possibilità di incontrarlo di nuovo. Ci sono persone che magari non senti tutti i giorni e non chiami tutti i giorni, proprio perché sai che a breve e come sempre, tanto incontrerai. Questo tipo di persona, era Severino per me. Era un'istituzione affettiva. Uno che c'era e la cui presenza non mi sarebbe mai passato per la mente potesse essere messa in discussione.
Crescemmo, ognuno di noi mise su famiglia. Io cominciai a lavorare in chiesa, in funzione della futura chiamata ministeriale recentemente resa pubblica, mentre lui, ancor prima, divenne capogruppo. Tutto sembrava stabile. Severino ancora c'era, io c'ero e avrei continuato ad invecchiare insieme a lui, io come pastore, lui come capogruppo, lavorando insieme nel ministrare questa chiesa. Fino a quel punto tutto era come avremmo voluto che fosse.
Poi arrivò la malattia. Tutto cambiò. I ragazzi che si incontravano al mattino per fare le prove, quelli che ascoltavano e componevano brani, quelli che uscivano ed entravano dalla porta di via Giuseppe Chiovenda 57 da quasi quand'erano nati ad allora, potevano morire.
Quel giorno scoprii che Severino che "c'era", quella mia istituzione affettiva che ritenevo eterna, sarebbe potuta non esserci più. Lui lo scoprì ovviamente prima di me.
Così abbiamo pregato, abbiamo gridato, ci siamo dimenati, allarmati e consolati insieme, non preoccupandoci tanto di distrarci dalla malattia, quanto di guardarla negli occhi, e trovando la risposta da dare ad essa in un raggio di luce da seguire che il Signore mandava dall'alto ogni qualvolta la malattia cercava di terrorizzarci col suo buio che, inesorabile, avanzava, rosicchiandogli pezzi di vita attorno, a volte a piccoli morsi, a volte a bocconi interi.
Ma non ci preoccupavamo tanto del buio che avanzava intorno a noi, quanto di non perdere di vista quel raggio di luce che era dentro di noi. E quella luce era la Parola di Dio.
E più il buio avanzava fuori, più quella luce cresceva dentro. Se qualcuno pensa questa sia retorica, lo pensa perché non conosce me ma soprattutto non ha conosciuto Severino e forse, allora, non conosce il Signore.
Ed ho potuto vedere Severino, cercare sempre di più il volto di Dio nella Sua Parola come mai prima in tutta la sua vita e, come vi dicevo, io lo conosco bene "perchè io sono quello delle fiabe del polpo".
E Dio ci è stato accanto. La Sua manna "ci" e "gli" ha dato forza giorno dopo giorno, non solo per se stesso ma anche per gli altri. Questo mentre si affollavano quelli che gli facevano false profezie: "Dio mi ha detto: domani guarirai". Quelli che predicavano strane dottrine come: "Se stai così è perché hai un problema con qualcuno" oppure "Dio mi ha dato questo segno o quell'altro e certamente tu tra poco guarirai". Fino a chi addirittura a volte lo sanzionava dal poter dire "sono malato", perché se non dici "sono guarito" hai poca fede, finanche a riprenderlo perché aveva chiamato la propria malattia per nome, SLA, perché "il nome della malattia non si dice".
Una volta Severino però si era stancato davvero, perché oltre a questi tipi di atteggiamenti, si erano aggiunti i normali problemi del gruppo di chiesa che lui ministrava, dove spesso dinamiche umane si accavallano ed intrecciano, contendendosi ragioni e torti in gomitoli complessi da spicciare. Severino in quell'occasione era arrivato a chiedersi se era giusto che lui, che di problemi ne aveva ormai tanti, fosse tenuto a preoccuparsi anche di quelli degli altri.
Era stato in quel tempo che Dio gli aveva parlato in un modo che pochi sanno, ma di cui ora, su suo stesso consenso datomi mentre era ricoverato lunedì con la maschera di ossigeno, vado a rendervi partecipi.
Era il 2014, all'Hotel Colombo di Roma, in occasione di una conferenza pastorale che Severino volle riunire la moglie Simona, Alessandra Scanu e me per raccontarci la visione che Dio gli aveva dato una di quelle mattine.
E come è stata utile a noi, compreso Severino, lo sarà certamente a voi. Eccola:
VISIONE
«Severino si trovava davanti ad una collina sulla cui cima c'era un albero che sembrava essere una quercia. L'albero poteva vederlo solo da lontano, perché lui si trovava ai piedi di quella collina, dove accanto a lui, da una parte vi era un fiume e dall'altra un grandissimo campo.
Il fiume aveva delle acque dai colori limpidi e meravigliosi, con acque talmente belle, da fargli venire voglia di immergersi in esse, perché lì certamente avrebbe trovato riposo e refrigerio. In mezzo al campo invece si trovava un aratro, non uno moderno, ma il tipo antico, a mano, che usavano i contadini di una volta. L'aratro era di legno rozzo e sporco di terra.
Ad un tratto Dio parlava a Severino nella visione, comandandogli di prendere quell'aratro con le mani per lavorare quel grande campo.
Ma Severino non voleva: sia perché voleva rimanere a guardare il fiume dalle acque meravigliose e non aveva la minima intenzione di sporcarsi le mani con quell'aratro, sia perché non si sentiva all'altezza di quel grande lavoro.
Ricordo che nel raccontarlo aveva usato espressioni come: "In che modo potrei muovere quest'aratro o avere la forza di lavorare questo grande campo Signore?"
Ma il Signore insisteva e gli diceva di arare il campo e che avrebbe dovuto farlo prima che il sole tramontasse. Infatti in quel momento era l'alba.
Così, al secondo comando del Signore, Severino afferrata la vecchia aratro con le mani, cominciava a lavorare il campo, sbigottendo di stupore perché l'aratro sembrava muoversi da sola. Infatti l'aratro non pesava affatto e ogni volta che incontrava uno dei tanti sassi, massi o pietre che ne ostacolavano il solcare della terra, lui poteva scalzarlo e gettarlo via senza alcuna difficoltà o fatica.
A lavoro finito, dopo aver arato il campo e il sole si era fatto alto nel cielo, Severino si trovava delle sacche lungo i fianchi. Il Signore gli parlava nuovamente dicendogli che stavolta avrebbe dovuto spargere nelle zolle di terra arata la semenza che si trovava nelle sacche. Così Severino prendeva a spargere questi semi e la cosa che raccontava era che lui sbigottiva per una seconda volta perché questi semi germogliavano, crescevano e spigavano velocemente, al minimo contatto con la terra, in maniera soprannaturale. Appena gettato il seme, nemmeno il tempo di qualche passo che la spiga dietro di lui era già cresciuta.
Tuttavia vi erano dei corvi, in quello che ormai era il campo di grano che germogliava, che cercavano di rubare il frutto delle spighe, ma erano le stesse spighe a pungerli cacciandoli via.
Ricordo poi, che Severino raccontava di essersi ritrovato lì, sulla cima di quella collina, all'ombra di quel grande albero che aveva visto al principio da lontano e che sembrava essere una quercia. Mentre se ne stava lì ammirava quel grande campo, ormai ricolmo di floride spighe di grano, chiedeva al Signore: "E adesso Signore? Chi raccoglierà questo grano?".
Ma il Signore non gli dava alcuna riposta e rimaneva in silenzio.
Allora Severino si ritrovava all'ora del tramonto, a mangiare un frutto, sotto il grande albero che sembrava una quercia, mentre soddisfatto dalla vista del campo di grano, si godeva il lavoro che era riuscito a fare per tempo, prima che il sole scendesse.
Solo a quel punto, all'ora del tramonto, Dio gli diceva: "Ora vai, adesso puoi scendere nel fiume e lavarti le mani per riposarti"».
Da quel momento in poi, nessuno di noi dimenticò quella visione che si realizzò. Se c'era stanchezza subentrava la forza di Dio per andare avanti nel continuare a far fruttare la porzione di campo che Dio aveva affidato a Severino, in maniera sovrannaturale. E tutta la chiesa può testimoniare che se c'è stato un gruppo che ha fruttato e spigato in maniera davvero sorprendente è stato proprio quello di Severino, che ha prodotto in maniera speciale al Signore. E tutto ciò non senza i problemi che un normale capogruppo deve affrontare. Ma poi nella visione, dopo l'aratura, la semenza e la crescita, arrivava un tramonto e il momento di riposare.
Tutti noi avevamo capito bene cosa ciò volesse significare. E il Signore aveva ulteriormente confermato di recente questa visione. Ma non posso dilungarmi in tutti i dettagli, che se pure importanti, ora sarebbero troppi.
Ci siamo quindi arresi a causa di questa visione? La risposta è sì.
Ma non ci siamo arresi alla malattia. Ci siamo arresi alla volontà del Signore sia che lo guarisse sia che non lo guarisse.
Ci siamo arresi è vero, ma ci siamo arresi come si sono arresi alla volontà di Dio Shadrak, Meshak e Abed-nego quando dissero: “Ecco, il nostro Dio, che serviamo, è in grado di liberarci dalla fornace di fuoco ardente e ci libererà dalla tua mano, o re. Ma anche se non lo facesse, sappi o re, che non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo l'immagine d'oro che tu hai fatto erigere”. (Daniele 3:17-18).
Ci siamo arresi, è vero, ma non alla malattia ma o ad una guarigione miracolosa o alla certezza del mondo a venire, alla maniera dell'apostolo Paolo quando scrisse: “Per me infatti il vivere è Cristo, e il morire guadagno”. (Filippesi 1: 21).
Ci siamo arresi, è vero, ma non alla malattia, ma o ad una guarigione miracolosa o alla piena speranza in Dio sapendo che tutto, anche la morte, sarebbe stata sotto il Suo controllo, come quando Gesù gridò nel Getsemani: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia volontà, ma la tua”. (Luca 22:42)
E non ho alcuna vergogna nel dire che l'ultima volta che Severino venne qui davanti per pregare, io facendolo dissi così:
"Signore, se devi guarirlo guariscilo ora, oppure, se non devi guarirlo, abbrevia la sue sofferenze".
In altre parole ci siamo arresi al riposo del Signore, sia per la sua guarigione, sia per la sua morte nel segno di una vittoria che ci sarebbe stata in ogni caso. Perché il cristiano sa, che il tramonto non è la fine della storia ma l'inizio. Sa che il passare per le acque di quel fiume non è per annegare ma per vivere.
Il cristiano sa che arriverà il giorno in cui Severino che ha seminato il campo, incontrerà i suoi amici mietitori "affinché il mietitore e il seminatore si rallegrino insieme".
Se un senso a noi comprensibile, questa storia ce l'ha, chi lo sa che non sia che quelli che si dicono cristiani, quelli che si confessano come i credenti nella resurrezione imparino a non scandalizzarsi più proprio della morte?
Fabrizio Quattrocchi mentre combatteva nella guerra in Iraq fu preso in ostaggio. Prima di essere ucciso dai suoi carnefici, per un'Italia che non gli aveva promesso alcuna resurrezione, divenne celebre per aver detto: "Ora vi faccio vedere come muore un italiano".
Severino Marchetti, il primo gennaio 2016, mentre combatteva una guerra su questo mondo, è stato preso in ostaggio da una malattia e prima di essere ucciso da essa, nel nome di un Gesù che gli aveva promesso una resurrezione, non perse la sua fede in Lui e per me è e sarà sempre l'eroe che disse: "Ora vi faccio vedere come muore un cristiano".
Non addio amico mio, ma "da Dio", perché è lì che ci rivedremo Severino Marchetti, tu che sei arrivato raccontandomi fiabe di polpi e te ne sei andato raccontandomi visioni di Dio».
Pastore Alessandro Lilli
05 gennaio 2016
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